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HERBIE HANCOCK

Herbie Hancock (Herbert Jeffrey, detto Herbie). Il pianista di Chicago che ha suonato dal pianoforte al piano elettrico, al sintetizzatore, al clavinet, partendo dal jazz, passando al funk, al jazz fusion, sconfinando nel pop. E’ considerato il passo successivo a Thelonious Monk. Viene ingaggiato da Miles Davis per cinque anni, forma un quintetto con Wayne Shorter; nel 1962 pubblica il suo primo album. Ottantacinquenne, torna in Italia in tournee nel 2025 (Perugia, Roma, Udine, Bergamo e Napoli). Io scelgo la tappa di Lazzaretto (BG) del 18 luglio. Un uomo sempre proiettato in avanti, lo ha dimostrato anche in questa occasione! In primis perché fa sapere al pubblico che non gradisce riprese di foto e video con cellulari, in secondo inverte l’ordine delle cose (inizia con un’overture che sembra una traccia conclusiva per il potere esplorativo, e subito dopo presenta il nome degli altri quattro componenti della band); e tutto questo lo fa per organizzare un ascolto del jazz, aperto al racconto (un pezzo di storia), e aperto al dialogo con il pubblico. Ha un approccio moderato, mantiene uno stato di serenità nell’ambientare la serata; tra una canzone e l’altra, si alza in piedi e con microfono si proietta fisicamente verso gli spettatori, presentando il titolo e colloquiando con il pubblico. Poi ritorna alla sua postazione bivalente: da un lato il pianoforte e dall’altro la tastiera. Non abbandona mai e poi mai gli ascoltatori; è l’unico dei musicisti “attivo” in modo continuativo sul palco per tutta la serata. Ma è nel bel mezzo del suonato che ti prende per mano e ti consente la sperimentazione di suoni elettronici mescolati con il funk, anche se, il “suo suono” arriva per l’80% dal pianoforte, quindi è un suono brillante, luminoso, consente un’esperienza auditiva autentica a cui oggi non siamo più abituati, che ha un’origine molto lontana ed una prospettiva verso l’infinito. Il suo “Buonasera” è un racconto dell’esperienza live che lo aveva portato a Bergamo (1972): in questa città aveva scovato nuovi prodotti tecnologici per sistemi audio speaker che da nessuna parte aveva mai trovato. Quella frase “la tecnologia viene da qui” fa molto piacere a tutti noi, soprattutto se penso che questo spazio, il Lazzaretto, nasceva come ospedale per ospitare e confinare malati contagiosi. L’ouverture è fusion e psichedelica dai suoni grassi e cromatismi scintillanti. Curatissimo il suono. La tromba di Terence Blanchard ruba la scena ad Herbie che, suonando il piano, fa rimbalzare avambracci ed il sedere sul cuscino; è una sorta di staffetta dall’animosità musicale che passa attraverso i cinque musicisti e collima nel chitarrista Lionel Loueke con un ritmo afroamericano, esaltato da un suo vocale di soffi e aspirazioni. Un pensiero di Herbie va al suo grande amico Shorter con la successiva “Footprints”, un blues d’avanguardia che aziona i colli del pubblico (iniziano ad ondeggiare). Segue la schizzofrenica “Actual Proof”, spesso nel suo ascolto si rimane intrappolati in guizzi di funk da disturbo ossessivo compulsivo: qui è Jaylen Pentinanud a stramazzare il pubblico. Dopo “Butterfly” Herbie manipola l’ascolto della serata; ci prende per mano richiamando Laurie Anderson con la sua “Superman” in un gioco elettronico che prende un po’ in giro l’autotune. Esperienza da vocoder. Alterna frasi al silenzio con la sua voce armonizzata che sopraggiungono ad intermittenza (è come se qualcuno toccasse la manopola del volume di tutta il sistema audio). Il pubblico sorride e anche lui sembra divertirsi. L’atmosfera si riscalda con l’ingresso vocale del chitarrista che vocalmente riproduce un fraseggio africano. L’elettronica si alimenta sempre di più e si ha l’impressione di essere finiti in una sorta di campionamento. Herbie imbraccia la sua tastiera a spalla (keytar). Siamo nel bel mezzo dei suoi medley con più fraseggi di più tracce (“Hang Up Your Hang Ups / Rockit / Spider”), per dare spazio al funk contaminato dall’elettronica (in quanti verranno influenzati dal suo agire, pensate agli Us3, a Jamiroquai, ai Calibro 35). Con la bombastica “Chamelon” il “nostro Sandy Marton” suonando saltella come un ragazzino portando a termine il concerto. Dal mio posto a sedere mi avvicino al palco passando per il suggestivo portico e scatto la foto al suo saluto: che mani piccole ha Herbie!

SETLIST:
Ouverture
Footprints (cover di Wayne Shorter) 
Actual Proof
Butterfly
Hang Up Your Hang Ups / Rockit / Spider
Chameleon

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