BRUTAL ASSAULT #28
Nell'affrontare l'esperienza di un festival all'estero, quest'anno si è scelti di intraprendere un percorso che ci ha portati fino in Repubblica Ceca, precisamente a Jaromer, ad un paio d'ore circa di distanza da Praga, in direzione della Polonia, per assistere alla ventottesima edizione del Brutal Assault, che col passare degli anni è diventato uno dei punti di riferimento delle sonorità heavy metal tendenti all'estremo, grazie anche alle dimensioni più contenute ed umane rispetto a grandi spazi come Wacken Open Air ed Hellfest, mantenendo costi competitivi ed accettabili e proponendo, così come per i festival menzionati, una grande offerta musicale composta da circa 150 band. Nella storica fortezza di Josefov, situata nell'omonima frazione di Jaromer, si sviluppa questo festival costituito, oltre che dai vari stage in cui hanno luogo i concerti, anche da vari spazi dedicati al "food and drink" di amplissima scelta (anche per i vegani), da confortevoli zone relax gestite anche dalle varie aziende presenti, da una quantità molto nutrita di stand di vestiario ed accessori vari, nonché da una quantità sterminata di servizi igienici che hanno accontentato un po' tutti. Sicuramente, a fronte di tutto questo e delle band che abbiamo seguito, è stata un'esperienza da ricordare e che cerchiamo di sintetizzare con il racconto di alcune delle band siamo riusciti a seguire in questi quattro giorni di pura liberazione.
MERCOLEDI' 6 AGOSTO
Nel caldo pomeriggio di mercoledì 6 agosto, sul palco del Marshall Stage (il palco sinistro che compone il sistema del main stage del festival), entra in scena il progressive metal degli australiani Ne Obliviscaris, quintetto capitanato dalla voce pulita e dal violino di Tim Charles, che si è prestato volentieri a presentare la band e i brani che contengono questo set, quattro brani di cui la metà (“Equus” e “Suspyre”) facenti parte dell’ultimo lavoro ‘Exul’ del 2023. Nelle fila della band è presente da qualche anno anche il bravo bassista Martino Garattoni, proveniente soprattutto da band come gli Ancient Bards, e che anche in questo contesto si rende partecipe in maniera importante alle strutture notevoli della band. Il contributo dato anche dal growl dell’attuale voce James Dorton, nonché le strutture vorticose della band, hanno reso interessante il set, soprattutto per coloro che sono più avvezzi ai tempi dispari che contraddistinguono il genere.
Si passa poi dall’altra parte della fortezza, precisamente all’Obscure Stage, dove sul palco si manifesta il thrash old school dei canadesi 3 Inches of Blood, tornati in attività dopo un periodo di lunga assenza. La band di Cam Pipes ha dato vita ad uno show tradizionale, ma molto coinvolgente e bello cattivo, senza tanto spazio per originalità e freschezza, creando invece un manifesto dettato da coinvolgimento fisico e una buona dose di ignoranza, tipica dei migliori Accept, per provare a fare un metro di paragone.
Rimanendo nello stesso stage si inaugura la fase dedicata alla piccola pattuglia italiana, e si comincia in grande stile con il symphonic death dei Fleshgod Apocalypse, band pomposa che negli anni ha stabilito un crescente consenso tra il pubblico internazionale. Pienamente fieri delle loro origini, testimoniato fedelmente dall’ingresso in scena con tanto di bandiera italiana imbracciata dalla voce lirica di Veronica Bordacchini, la band stampa un set di grande valore, dove a farla da padrone è l’ultimo arrivato ‘Opera’, che ha coperto circa metà del set. Nel mezzo, tanti spunti dai precedenti valori, tutti venati di quel barocchismo di cui la band è ormai nota. Anche in questo caso, l’apprezzamento del pubblico è stato vigoroso, grazie al potente sound e alle ritmiche serrate offerte dalla band.
Il tempo di rifocillarci lungo i tantissimi stand di "food and drink" offerti dall’organizzazione, e ci si sposta in luogo particolare della fortezza. Seguendo un percorso coperto e ben definito, ci si addentra all’Octagon Stage, uno spazio interamente delimitato dalle mura della fortezza, sormontato in cima da un’installazione di un pentacolo con i cappi appesi alle punte, giusto per segnalare al pubblico a cosa ci appresta una volta entrati in questo giogo infernale. Probabilmente a causa dell’orario d'ingresso, ci si accorge che lo stage risulta praticamente pieno a tappo, e gli statunitensi Inter Arma hanno già iniziato a menare le danze. Ottimi esponenti dello sludge-doom americano, la voce di Mike Paparo risulta particolarmente dominante. Nonostante i suoni avvertiti in fondo allo stage non siano stati particolarmente ottimali (in particolare i bassi troppo accesi e profondi), la band ha saputo dare sfoggio delle proprie qualità soprattutto nella seconda parte del set, dove hanno sfoderato brani come “The Long Road Home” e “Transfiguration” che hanno praticamente fatto viaggiare l’audience, nel frattempo ben assestatasi all’interno dello spazio. Una performance convincente.
Tornando dalle parti dei main stage (precisamente al Sea Shepherd stage), troviamo il tempo per vivere la parte finale dello show degli Static-X, ristabilitisi a seguito della morte dell’istrionico frontman Wayne Static, con al suo posto un personaggio “avatar” a tutti gli effetti, che riprende lo stile di Wayne, sia come outfit, sia come resa musicale. Voci di corridoio accennano che dietro a quelle vesti si nasconda il frontman dei Dope. Fatto sta che, con le finali “I’m With Stupid” e “Push It”, la band ha saputo coinvolgere il pubblico come meglio non si poteva.
Al Marshall Stage posto a fianco del Sea Shepherd, sul palco si manifesta il death putrido e tagliente dei Dying Fetus, e la voglia di buttarsi nella caciara diventa impellente. Le voci di Sean Beasley e John Gallagher, assieme alle ritmiche al fulmicotone di un death sempre al limite, si espandono sulla folla come raffiche di cattiveria e di brutte intenzioni, sempre votato al macello più generale. Prestazione death metal assolutamente dritta, per uno show da ricordare.
La fuoriuscita di un membro come Brent Hinds dalle fila dei Mastodon ha suscitato sicuro clamore tra gli appassionati della musica dura. Nonostante ciò, la band tira avanti per la propria strada, e l’ingresso di Nick Johnston sta cercando di sopperire allo stile di Hinds che si è rivelato fondamentale per la crescita e lo status della band durante questi 25 anni di carriera. Da notare che nessun brano proposto durante il set non faccia parte di ‘Crack The Skye’, a detta di molti l’apice compositivo e musicale della band, spaziando invece su una vasta gamma di episodi in cui, a farla da padrone, sono i brani contenuti in ‘Once More ‘Round the Sun’. Dissapori o meno, tra cambi di formazione che potrebbero rompere gli equilibri e necessità di rinnovare un percorso sempre coerente, la band ha comunque presentato uno show dignitoso, povero di lacune e dove la potenza del suono ha più volte raggiunto vette importanti.
Si dice spesso che la componente visuale formi una buona parte dello show, e nel caso dei Ministry questa componente è sempre stata fondamentale nel comunicare un certo tipo di messaggi, aderenti in pieno alla corrente di pensiero che segna la carriera di un personaggio come Al Jourgensen. L’affermazione della scelta dei membri della band in base alle loro posizioni politiche decisamente a favore di un rifiuto della corrente repubblicana, accompagnata dall’immagine del divieto a supportare l’attuale Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, rispecchia totalmente il punto di vista del buon Jourgensen. Ovviamente la scenografia, i colori e le illuminazioni sono coerenti e assolutamente al passo con le ritmiche industrial di cui la band di Chicago sono padroni da molti anni. La scelta della scaletta proposta rispecchia molto i desiderata dal pubblico, che hanno accolto brani come “Stigmata”, “Just One Fix”, “Jesus Built My Hotrod” e “So What” con una partecipazione totale. Talmente semplici nei suoni, quanto ficcanti nella comunicazione, i Ministry hanno tirato fuori uno show magistrale.
A certi musicisti non piace sedersi sugli allori di un passato glorioso ed impegnativo. Ne è un esempio uno degli storici chitarristi degli Slayer, vale a dire Kerry King, che da qualche anno propone live i contenuti dell’album solista ‘From Hell I Rise’. La prestazione è accompagnata da una band di tutto rispetto, capitanata oltreché dal carismatico chitarrista, anche dalla voce dei Death Angel Mark Osegueda, che mostra con dignità un’attitudine thrash che ben si accompagna all’attuale percorso di Kerry King. D’altro canto, lo show si presenta interessante, ma carente di particolari spunti che riescano a rendere lo show memorabile. Ovviamente non diciamo che gli Slayer sono un’altra cosa, perché anche un bambino che ancora si deve apprestare ad iniziare la scuola può pensare una cosa del genere. Ma, ecco, sicuramente il livello di resa dei brani non fa gridare al miracolo.
Si chiude la serata della mia personale scheda del mercoledì con una band che, negli anni, fatica a perdere colpi. L’estremismo dei greci Rotting Christ è tanto ferale, quanto estremamente accessibile allo stesso tempo. Sakis Tolis si dimostra particolarmente in forma, come il resto della band, mai fuori giri e sempre precisa e dritta al punto. Anche in questo caso, la scaletta risulta particolarmente convincente nella scelta dei brani, dove sono presenti episodi molto cari alla band come “In Yumen Xibalba”, “Like Fahter Like Son” e “Kata Ton Daimona Eaytoy”, che con la loro atmosfera tra l’ancestrale e il tribale, fa letteralmente volare l’anima della folla.
GIOVEDI' 7 AGOSTO
All'interno della vasta gamma di generi del rock e del metal offerti dal Brutal Assault, uno spazio interessante viene dedicato al vintage rock di matrice occulta e selvaggia dei londinesi Green Lung, che in tre album di sicuro valore hanno dato una bella spallata agli interessi degli appassionati verso questo tipo di sonorità. La parte del leone è data senz’altro dalla voce epica ed appassionata di Tom Templar, che gira attorno alle sonorità dure e di stampo vagamente retrò che la band sa costruire. Di grande spessore ed epicità la performance della band su “In The Forest Church”, uno dei cavalli di battaglia dei londinesi. Show di sicuro impatto musicale.
Sempre nel main stage si consolida la giornata dedicata al death metal aggressivo che ha aperto i battenti con lo show mattutino degli italiani Fulci, e che prosegue con un nome che non ha bisogno di molte presentazioni: i Nile. Cosa dire tanto di più quando si osserva un batterista come George Kollias interpretare il suo ruolo con una passione e una maniacalità tecnica che hanno il sapore di rarità vera; vederlo apparentemente immobile nelle sue espressioni, eppure totalmente dinamico e multiforme nel movimento degli arti, è semplicemente arte pura. Ad accompagnare le sue gesta, il trittico vocale e strumentale formato da Sanders, Jeter e Kingsland, che lacerano il petto dei presenti con delle stilettate affilatissime che non lasciano scampo.
Seguendo la mortale scia si presentano sul main stage i Suffocation, band americana che dall’ingresso di Ricky Myers ha riacquistato nuova vitalità. Come successo per il set dei Nile, anche i Suffocation sfoderano una performance molto incisiva e di grande coinvolgimento, ed i momenti di grande euforia nel bel mezzo del pubblico non si sprecano.
Ci spostiamo verso l’Octagon per seguire una parte dello show degli epic doomster Crypt Sermon. Come per il set degli Inter Arma, anche in questo caso la posizione che è stata assunta per seguire la band di Philadelphia non aiuta molto nel seguire il concerto con vivo interesse, sebbene le sonorità doom dei ragazzi si dimostrano alquanto importanti, ma inficiate da una resa dei bassi che dal fondo si dimostra sin troppo profonda ed assordante. Pertanto, si approfitta per seguire il resto del set osservando la mostra artistica allestita all’interno degli spazi adiacenti l’Octagon, nonché concedersi un meritato spazio rilassante prima di spostarsi nel KAL Stage.
Dei vari stage presenti nel contesto della fortezza di Josefov, particolare attenzione e curiosità vengono dati al KAL Stage. KAL è l’acronimo di ‘Keep Ambient Lodge’, ed è dedicato a quei momenti di relax diffuso per chi, dopo aver accumulato le fatiche dei cammini da un palco all’altro del festival, decide di dedicarsi un po’ di riposo grazie all’ampia dotazione di poltrone e divani perfetti per chi vuole stare al riparo dalla frenesia quotidiana. Occhio però che, a tutto questo, si alternano le proposte musicali che si producono in fondo alla sala, e che proprio rilassanti non sono, anzi possono essere carichi di watt e di frequenze di una certa consistenza. È uno stage che ha proposto prevalentemente musica di stampo elettronico, mista a certe avanguardie per orecchie dal fiuto delicato. In tutto questo si è inserito un duo francese, i Moebius, formato da chitarra e batteria, che ha fatto della monoliticità stoner-doom il proprio unico credo musicale. Per chi si è posizionato subito davanti al palchetto, le impressioni sono risultate devastanti e praticamente indelebili. Così primitivi, e allo stesso tempo così debordanti, per uno show da impatto vero.
Ancora non paghi delle precedenti performance death metal dei main stage, ci si appresta a seguire lo show degli Obituary carichi di voglia di spaccare il mondo in quattro. John Tardy si dimostra subito in forma, e il resto della band fa altrettanto. Lo show celebra soprattutto i 35 anni del seminale album ‘Cause of Death’, tra i capisaldi del death metal americano in generale. Ben cinque brani sono tratti dall’album, che ovviamente viene accolto in maniera trionfale dal pubblico. Anche gli altri episodi tratti dalla vasta discografia della band vengono eseguiti in maniera puntuale e verace dalla band, testimoniando definitivamente la giornata che per il death metal ha mostrato i muscoli in maniera esuberante.
E ci appresta, quindi, a seguire quello che a tutti gli effetti è considerato il main event dei main event, vale a dire lo show dei francesi Gojira, gli unici ad avere uno show interamente personale come scenografia e proiezioni. I fratelli Duplantier eseguono uno show tecnicamente e scenicamente impeccabile, con Joe che non si ferma un attimo spostandosi verso le varie posizioni definite dalla posa dei microfoni, e Mario che esibisce in maniera anche fin troppo teatrale le sue doti di prepotente batterista, dando anche spazio a momenti di intrattenimento accolti da pubblico in maniera perfetta. C’è spazio anche per “Mea Culpa”, suonata durante la cerimonia di apertura delle ultime Olimpiadi di Parigi 2024, che viene interpretata in maniera esplosiva, come tutto il resto dei pezzi. Band da seguire da vivo almeno una volta nella vita, per essere convinti che il rock duro non cessa ad abbassarsi.
In questo momento con Blood Fire Death si fa la storia del black e del viking metal, con il ricordo di una band e di un personaggio che hanno fatto la storia del metal estremo. Una superband in cui sono dentro membri di Watain, Enslaved, Emperor ed altri, con ospiti altrettanti figure cardine del black metal, come Gaahl e Attila Csihar, hanno eseguito alcuni tra i più definitivi brani dei Bathory, in una cornice scenografica segnata dal fuoco e della natura incontaminata, elementi imprescindibili nell’universo dei Bathory. L’epicità al suo massimo.
A concludere la giornata di giovedì sul piano black and death, sull’Obscure Stage va in scena (con qualche minuto di ritardo) il cerimoniale di Proscriptor e dei suoi Absu. Dato l’orario già notturno, il pubblico risulta più diradato, ma non per questo meno partecipe. La figura di Proscriptor è come sempre densa di blasfemia e di carattere goliardico e giullaresco che ne fanno un unicum del black metal. Show dalle atmosfere gelide, in cui la voce del frontman risulta quanto mai luciferina.
VENERDI' 8 AGOSTO
Nel pomeriggio di venerdì 8 l’Obscure Stage si appresta a vivere un momento in cui la voglia di compiere viaggi allucinogeni sale a galla, grazie all’esibizione degli svedesi Monolord, tra i più interessanti gruppi attuali dello stoner-doom. La performance della band (in quest’occasione con l’aggiunta di eccezione di Per Wiberg alla chitarra che li sta accompagnando nel loro tour) è quelle che fanno aumentare i gradi centigradi oltremisura, in un pomeriggio già di per sé particolarmente caldo. La chitarra principale di Thomas Jäger compie viaggi inesplorati, mentre la parte ritmica detta i tempi in un incedere pesante ed ossessivo. Questi sono i momenti in cui è bello come la droga possa fare effetti assolutamente positivi.
Rimanendo in zona Obscure Stage, cambiano le sonorità, ma il livello di atmosfera rimane molto elevato. Si passa dallo stoner di chiara matrice desertica, al blackgaze tanto caro a band come Alcest e Les Discrets, e in cui attualmente ha preso posto in maniera autorevole e insindacabile l’artista norvegese Kathrine Shepard, nota al pubblico con il nome di Sylvaine. L’algida cantante e chitarrista norvegese ha avuto un ulteriore successo grazie all’ultimo album ‘Nova’ di qualche anno fa, oltre ad intraprendere un percorso solista più vicino all’ambient, che tuttavia non discosta più di tanto dalle sue origini e mantiene le alte vette atmosferiche. Il progetto di band, invece, è più elettrico che mai, e le melodie a volte si fanno serrate, ma cariche di episodi viaggianti, facendo percorrere all’ascoltatore tragitti senza meta. “Fortapt”, “Mono No Aware” e “Nowhere, Still Somewhere” sono tre momenti di pura catarsi strumentale, con Kathrine che alterna, come di consueto, voce pulita ed ariosa e harsh vocals in classico stile blackgaze. La performance si chiude con un brano più datato come “Morklagt”, che suggella un set come sempre adrenalinico e ad alti tassi di catarsi emotiva.
Sempre all’Obscure si riducono i componenti sul palco, ma di inverso si alzano le frequenze ritmiche e di impatto grazie al duo tedesco dei Mantar, da una dozzina di anni interpreti autorevoli di uno sludge-doom piuttosto classico, ma a temperature elevate. Sul palco del Brutal Assault danno spazio a buona parte della loro discografia, spaziando quindi da un album all’altro, sempre uno di fronte all’altro come ad un duello costante. Alti volumi e cattiveria costante ricoprono tutto il set proposto, sferzando colpi che stendono volentieri il pubblico.
C'è anche spazio per il post-rock, quello poderoso e carico di volumi, ed attualmente, anche grazie alla pubblicazione del fresco lavoro ‘Flickering Resonance’, i Pelican da Chicago rientrano alla ribalta dopo un lungo periodo di assenza durato sei anni dal precedente album. La band sembra non aver perduto la verve poderosa che li ha contraddistinti, e al Brutal Assault mettono in scena uno show di chiaro impatto, facendo muovere molto spesso le teste dei presenti, grazie anche all’ottima resa dei nuovi brani. Si spera in un ritorno live in Italia del quartetto dell’Illinois.
Si passa ora ai Main Stage, ed entrano gradualmente in scena alcuni tra i pesi massimi del metal. Uno di questi, tra i capostipiti del thrash metal mondiale, sono i newyorkesi Overkill, che al Brutal Assault hanno ripercorso parte della loro carriera con i loro brani più caratteristici, sempre ad alto tasso di vitalità e di compattezza. “Blitz” Ellsworth e compagni hanno dato vita ad uno show energico, sferrando colpi micidiali sulle note di “Scorched”, “Rotten The Core” e “Elimination”, con una perfomance vocale di Blitz sempre all’altezza. La chiusura consueta sul monito di “Fuck You” suggella una performance di alto gradimento e di decibel oltre il limite.
C'era molta attesa per lo show dei Paradise Lost, ma bisogna ammettere che assistere ad un loro show fa sempre sorgere parecchie domande su come effettivamente una band di questo calibro possa prendere o meno alla leggera impegni di questo tipo, soprattutto nel contesto dei festival. Li abbiamo lasciati l’anno scorso al Luppolo in Rock di Cremona stampando uno dei migliori concerti degli ultimi anni sul suolo italiano, mettendo in mostra uno show solitamente tirato, ma suggellato da una scaletta da urlo e suonata benissimo da tutti. Anche lo show di supporto a King Diamond sembrava confermare la buona forma della band di Halifax. Questa volta, al Brutal Assault, le cose cambiano ed in peggio. Proponendo comunque una scaletta sulla carta di alta qualità, la band tutta sale in scena con molti più dubbi del previsto, tra difficoltà tecniche, carenza di sintonia e suoni altalenanti. Già con l’iniziale “Enchantment” si percepisce che difficilmente sarà giornata per i ragazzi, con Nick Holmes che questa volta più del solito mostra evidenti limiti alla voce. C’è sempre la speranza che, dopo ogni brano, ci sia un salto di qualità dei ragazzi, ma ciò purtroppo non avviene quasi mai, tra una performance di Aaron Aedy alla chitarra ritmica al limite dell’irritazione, una prestazione di Paul Singer rientrato da poco alla batteria molto scolastica e priva di coinvolgimento, e come detto una lucidità molto discutibile da parte di Nick Holmes. In tutto questo, l’unico che sembra predicare nel deserto è Greg Mackintosh, che mantiene comunque una propria dignità. Tanti tra i presenti hanno tuttavia incitato a gran voce la band; altri invece lo hanno fatto maggiormente come segno di incoraggiamento e di supporto per una prestazione che non arriverà mai a livello. Davvero un peccato, nella speranza che con il prossimo tour di supporto al nuovo album ‘Ascension’ ritornino a livelli più consoni.
Sulla strada verso l’Obscure Stage incontriamo le immagini introduttive dello show dei Mayhem sul Marshall Stage, a simboleggiare il culto e la storia dei pionieri del black metal norvegese, e un po’ di emozioni si fanno insistenti. Si arriva allo stage predetto… e la sera si fa torbida; e il palco diventa una scala di grigi opprimente e seducente allo stesso modo. Questo è ciò che accoglie il pubblico quando salgono sul palco i polacchi Obscure Sphinx, e tutto ciò che gira attorno all’Obscure Stage viene capovolto e trascinato, in un turbinio di vibrazioni che i ritmi post-metal e post-hardcore della band, e soprattutto la voce e la presenza scenica di Zofia Fras, hanno saputo creare con totale vigore. I quattro brani che hanno presentato hanno avuto tutti un comune denominatore: quello di lacerare il petto dei presenti, grazie anche proprio alla voce lacerante e tagliente della Fras, creando autentici stati emozionali abbinati a episodi di possessione. È un vero peccato che in Italia si conosca molto poco questa band, ma chi è stato ad osservarli sul palco ceco è rimasto assolutamente trafitto dalle stilettate emozionali che la band polacca ha saputo scoccare. L’ovazione lunghissima del pubblico li decreta come uno dei set più importanti del Brutal Assault.
Tra gli headliner della serata, a conclusione del set dei Mayhem e rimanendo in terra norvegese, il Brutal Assault propone quest’anno lo show dei Dimmu Borgir, da sempre dediti al black metal di chiaro stampo sinfonico. Come molte altre band presenti al festival, anche loro non hanno album da presentare, bensì ripercorrere gran parte della loro carriera discografica attraverso i loro momenti più salienti. Bisogna dire che, in generale, il loro set è risultato più che dignitoso, con uno Shagrath piuttosto in forma a livello vocale e particolarmente a suo agio scenograficamente e stilisticamente. La prima parte dello show è stata contrassegnata da sonorità e ritmi piuttosto morbidi per il loro genere, seguita poi da una tranche di brani in cui hanno alzato la tensione e permesso di creare atmosfere lugubri e inquietanti. L’utilizzo delle basi registrate per la seconda voce maschile è forse l’unica pecca di uno show positivo, e lo si è avvertito soprattutto nell’esecuzione di “Progenies of The Great Apocalypse”.
Personalmente, il set degli svedesi Cult of Luna era tra quelli maggiormente attesi, e la band di Johannes Persson e compagni hanno dato vita ad uno show contenuto, ma di ottima qualità. Nella loro consueta scenografia in scala di grigi che fa il paio con il loro sostenuto impatto sonoro, la band propone brani tratti ovviamente dal loro capolavoro ‘Vertikal’ (come le immancabili “I: The Weapon” e “In Awe of…”) ma anche da episodi più datati come il disco ‘Eternal Kingdom’. Forse, in uno spazio così aperto, i suoni tendono alla lunga a disperdersi in maniera più lontana rispetto a spazi al coperto, dove la risonanza risulta essere più consistente. Sta di fatto, comunque, che assistere ad un loro show è sempre un’esperienza da vivere, soprattutto per gli appassionati italiani che non hanno mai avuto molto modo di raggiungerli. Ogni colpo di doppia batteria ed ogni nota di chitarra, accompagnati dal riconoscibile timbro di Persson, sono sempre colpi dolci, eppure ferali che stendono chiunque.
SABATO 9 AGOSTO
Inizia la nostra giornata conclusiva del festival ceco subito dopo l’ora di pranzo con il thrash-groove metal dei veterani Exhorder. Una performance tutto sommato senza infamia e senza lode, con la formazione di Kyle Thomas che tiene sapientemente il palco e che intrattiene in maniera degna i presenti con i loro suoni pesanti, proponendo un brano per ciascun album pubblicato, in maniera da coprire in modo perfettamente sintetico una carriera lunga 35 anni che ha avuto come capostipite supremo proprio il buon Thomas, sempre rude nei suoi intendimenti.
Spostandoci verso l’Obscure Stage troviamo di fronte i King Woman. La band di Kris Esfandiari ha saputo ritagliarsi uno spazio piuttosto definito nel panorama del post-metal e post-hardcore internazionale, e nella giornata di sabato 9 lo ha saputo dimostrare grazie ad una partecipazione da parte della front-woman particolarmente sentita, con capatine verso le prime file del pubblico a segnalare la totale vicinanza con loro. La voce varia e molto personale di Kris si muove all’interno di uno schema musicale ben congeniato ed interessante, con la base ritmica tutta al femminile che ha creato le condizioni ideali affinché le chitarre si sono sapute muoversi con disinvoltura.
Troviamo spazio per gustarci buona parte del concerto degli svedesi Unleashed, per tornare a sentire un po’ di quel sano death metal scandinavo che da sempre fa scuola. Dopo la giornata di giovedì, particolarmente contraddistinta da una serie di show death metal di livello assoluto, il livello raggiunto dagli Unleashed si rivela comunque accettabile, e la band dimostra di produrre forza ed energia a buoni livelli.
Ci si sposta di Main Stage per seguire lo show degli austriaci Harakiri For The Sky, freschi del nuovo album ‘Scorched Earth’ che, in questo contesto, prende buona parte della scena. In circa tre quarti d’ora di show, la band mette insieme buoni pezzi, sempre con quel mix tra gothic, epic e death metal, il tutto intriso di atmosfere fredde e boscate che fanno sentire anche il più caldo dei giorni di agosto come una fredda giornata innevata. J.J. alla voce dimostra di essere sempre sul pezzo, e lo show risulta piacevole.
Tra le band italiane presenti al Brutal Assault c’è stato spazio sabato all’Octagon per i marchigiani Klidas, un collettivo non particolarmente dedito alle tipiche sonorità pesanti della maggior parte delle band che quest’anno hanno presenziato, ma che hanno saputo comunque creare un circuito emozionale e musicale di qualità, dando vita ad un percorso che varia dal post-rock al fusion jazz, creando sonorità colorate, con una certa dose di virtuosismo, alimentato soprattutto dal sax di Samuele De Santis, che ha dato vita a creazioni solistiche all’interno di un mare di suono degno delle migliori basi del post-rock strumentale. Il risultato è stato un coinvolgimento da parte del pubblico che è andato oltre alle aspettative. I presenti hanno dato vita a coreografie tra le più originali ed anche un pizzico strampalate, come dei lentissimi circle-pit a passo quasi mimetico, alternati a crowdsurfing che la band assolutamente non si aspettava, come testimoniato dai ringraziamenti quasi commossi del chitarrista Emanuele Bury. Una band da segnare con attenzione per gli show futuri in giro per l’Italia.
Gli ultimi headliner ufficiali del festival sono gli svedesi Opeth, autori come sempre di dischi di altissima fattura tecnica ed emozionale. ‘The Last Will And Testament’ conferma le qualità estreme di Mikael Åkerfeldt e compagni, con il ritorno ad un sound che aveva contrassegnato la prima metà della loro carriera discografica. In questa sede ne vengono proposti diversi episodi, eseguiti in totale scioltezza e gusto artistico. Non mancano comunque episodi da altri album, come “Master’s Apprentices” con quell’incedere sostenuto ben capitanato dalle voci estreme di Åkerfeldt; la sognante e toccante “In My Time Of Need”, episodio incontrastato di ‘Damnation’; la conclusiva title-track di ‘Deliverance’, che ogni volta spacca le ossa dei presenti. Da grande intrattenitore qual è, anche in questo caso Åkerfeldt si sa distinguere, forse mettendo un po’ in secondo piano gli altri componenti, diversamente dai concerti all’interno di tournèe. Se è permessa una piccola pecca, forse i suoni dal fondo dello spazio sono risultati leggermente meno puliti del previsto; una posizione più avanzata avrebbe forse giovato di più.
Rimbalziamo di nuovo tra i Main Stage per seguire quella vecchia volpe di Mikael Stanne che, questa volta, entra in campo con i The Halo Effect. Con un elevato minutaggio, la band sciorina una quindicina di brani, tutti ad alto tasso metallico, come testimoniato dalla grande foga di molti presenti, che dall’inizio alla fine si sono destreggiati in pogo e crowdsurfing a getto continuo (compreso il sottoscritto sulle note della conclusiva “Shadowminds”). In mezzo, una performance in cui c’è poco da discutere nei confronti della band, valida il giusto per scatenare le gioie della folla, con Stanne perfettamente a proprio agio in queste situazioni, e che ringrazia oltre ogni modo per il calore ricevuto.
Concludiamo questa lunga carrellata di band seguite con il black metal di Lord Ahriman e dei suoi Dark Funeral. Si chiude così questa bella esperienza immergendoci nel sottosuolo dove, bene o male, andremo tutti a finire, con Lord Ahriman a dirigere l’orchestra ed a sentenziare il nostro destino. Il Brutal Assault si conclude con un black metal di qualità, mai troppo oltranzista e prorompente, eppure molto dignitoso ed inquietante al punto giusto, con tutti i componenti in prima linea nel proporre uno show carico di mistero e di pathos.
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