DI'AUL
Mimmo Cinieri e Jeremy Toma, rispettivamente voce e basso dei Di’Aul ci fanno da ciceroni in quello che è a tutti gli effetti un progetto molto interessante che ha portato alla realizzazione di 'Garden of Exile', disco dai toni cupi in salsa sludge e Top Album qui su Hardsounds.
Dunque, complimenti. Un album maturo e ben suonato. Ed il monicker, che per chi vive nel pavese come il sottoscritto, è una sorta di genialata. Raccontateci qualcosa su di voi.
M: Grazie mille innanzitutto per i complimenti. Siamo contenti che vi sia piaciuto. Siamo un gruppo di amici e poi una band, con la passione del groove e dei suoni pesanti e lenti. Suoniamo insieme da circa 5 anni e tutt'oggi continuiamo a divertirci durante ogni sessione di prova. All'attivo abbiamo registrato tre dischi ('Giov 12,31', 'And then came the monsters' e 'Garden of Exile'), ma a breve ci rinchiuderemo in sala per registrare altre canzoni che sono venute fuori in quest'ultimo periodo.
Mi sembra di aver capito che in giro si parli solo bene di voi. Quale è stata l’impressione positiva che più di ogni altra vi ha dato da riflettere o colpito, magari inaspettata.
J.: Vedere il pubblico che apprezza tutto quello che facciamo e che percepisce il nostro divertirci.
M.: Questa cosa ci ha un po' spiazzati: in realtà ci eravamo preparati alle critiche più sfrenate, soprattutto per la resa sonora del disco. Le canzoni in realtà sono semplici, quasi un “easy listening”, il mood con cui l'abbiamo registrato invece no. Se non si è abituati a dischi lo-fi come quelli degli Electric Wizard e simili difficilmente si riuscirà ad apprezzare il nostro sound su disco. Ovviamente dal vivo è tutta un'altra storia. Provare per credere!
I testi di cosa trattano nello specifico e l’immagine di copertina come si allaccia ai contenuti? Guardando la tracklist l’idea che ci si fa è di un progetto dal mood decisamente nero (e musicalmente avete confermato questa mia tesi)…
M.: I testi parlano dell'esilio sia in senso fisico che figurato: una sorta di elogio alla solitudine dell'uomo, voluta o costretta. Ogni canzone narra di un diverso tipo di esilio: in “Black sanke voodoo” ad esempio il protagonista sceglie spontaneamente di allontanarsi da sua moglie perché teme di farle del male e per questo canta: “I'm am nothing/I don't exist/I'm part of the air I breath/save my wife/this's my claim/give to me all her pain”. Oppure in “Born in black” dove l'esilio avviene in casa di un uomo solo, davanti a uno “schermo morente”.
Il vostro sludge/southern metal mi è parso da subito maturo, ben concepito. Nonostante ciò mi ha colpito molto di voi la sicurezza con la quale abbiate rimarcato la vostra appartenenza, evitando sconfinamenti in territori più semplici e forzando punti importanti quali produzione, suoni, aspetto lirico. A cosa dobbiamo una visione così netta della scena metal?
M.: Il sound è maturo perché anche noi lo siamo, anagraficamente parlando (risate). Più che rimarcare un'appartenenza il tutto è stato ed’è un percorso personale di ognuno di noi che dopo anni passati a suonare svariati generi in svariati gruppi, abbiamo deciso di tornare alle radici del suono dando sfogo alla nostra voglia di semplicità e pienezza dello stesso. Le dinamiche sia delle composizioni sia delle registrazioni sono volutamente “vintage” (ora si dice così), proprio perché vogliamo tornare alle “roots bloody roots”.
I pezzi erano già decisi prima di entrare in studio oppure lì dentro avete apportato ulteriori modifiche?
J.: Erano completi al 99%, ma ci sono state piccole aggiunte nell'arrangiamento ispirate dal momento.
Un altro aspetto importante è sicuramente quello vocale, avete spinto al limite ciò che viene comunemente definito “cantato”. Come è stato proporsi in maniera così estrema in un ambito sonoro tutt’altro che accogliente?
M.: Personalmente non trovo così estremo il cantato: di certo non siamo una black metal band o una brutal death grind band. Probabilmente suona strano un cantato tendenzialmente hardcore (più o meno) su un genere come il southern. Ma nulla di nuovo comunque, anni fa ci avevano già pensato i C.O.C. e i Crowbar.
In giro si parla di Crowbar, Corrosion Of Conformity, Down, nomi altisonanti quindi. C’è qualcosa di loro in questo progetto? Altri nomi cari a voi?
M.: Per l'appunto. Assolutamente sì. Rientrano nei nostri ascolti. Non sono gli unici ovviamente, anzi ultimamente ci piace ascoltare musica o molto più violenta (vedi Napalm Death, Cannibal Corpse) oppure all'estremo opposto (in particolare il nuovo disco di Karyn Crisis “Gospel of the Witches). Ovviamente la base fondamentale sarà sempre rappresentata dai Black Sabbath.
Grazie per il tempo dedicatoci. Rinnovo i miei complimenti e lascio che tu chiuda in libertà.
M. e J.: Grazie infinite a tutta la vostra redazione e ai vostri lettori. Inconsapevolmente siete stati fonte di ispirazione! Vi aspettiamo ad un nostro concerto e se non dovessimo passare per la vostra città, scriveteci e vedremo di provvedere! A presto!
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