BUSH: I Beat Loneliness
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09/08/2025Decimo album in studio per i Bush capitanati dal carismatico Gavin Rossdale, ormai unico superstite della prima incarnazione della band che esordì nell'ormai lontano 1992. Unica band di provenienza britannica ad aver ottenuto un grande successo commerciale pur suonando un genere di provenienza prettamente statunitense (non senza polemiche, vista la provenienza dei londinesi, circa la loro sincerità e credibilità artistica), in realtà la prova del tempo ha dato ragione al quartetto che ora si ripresenta in ottima forma e prosegue una striscia positiva cominciata nel 2020 con l'ottimo 'The Kingdom' e proseguita con 'The Art Of Survival', pubblicato due anni dopo e seguito da una raccolta di successi che ha messo il punto su una carriera notevole. Anche questo nuovo 'I Beat Loneliness' prosegue sulla falsariga delle ultime due prove in studio, consolidando il sound classicamente grunge e post-grunge della band d'oltremanica, e contemporaneamente arricchendolo con inserti che vanno dall'hard rock di matrice classica fino ad arrivare a sfiorare l'alt metal e persino il nu-metal ("Footsteps In The Sand"), e l'industrial (il nuovo singolo "Scars", con un bridge dal riffing indiavolato ad opera dell'ottimo chitarrista Chris Traynor ed il tipico andamento grungy con strofa soft e ritornello hard a coronare il tutto). Se la prima parte del disco, nella quale spiccano le chitarre dense della titletrack e la notevole accessibilità del secondo singolo "The Land Of Milk And Honey", è quella più heavy e più granitica grazie ad un'ispirata sezione ritmica ed una voce in grande spolvero di Rossdale, la seconda parte si addolcisce e presenta una serie di ballad dalle atmosfere più scure e compatte. Si va dal quasi shoegaze di "We Are Of This Earth", forse il miglior brano del lotto, per arrivare al classico lentone alla "Glycerine" presente in ogni disco dei londinesi, vedi alla voce "Everyone Is Broken", per arrivare al pop rock tout court della conclusiva "Rebel With A Cause". Nel mezzo a fare da spartiacque troviamo il lead single "60 Ways To Forget People", grunge dalle venature elettroniche che rimanda ai tempi del sotovalutato 'The Science Of Things'. La produzione di Erik Ron (Godsmack, Staind e Panic! At The Disco nel curriculum) è pulita e formalmente perfetta, mentre a livello lirico il buon Gavin stavolta ha deciso di mettere al centro del villaggio un argomento delicato come la salute mentale, in una sorta di flusso di coscienza che brano dopo brano si srotola e va a toccare corde molto intime e personali, ma mai con eccessiva retorica. I Bush proseguono quindi nella loro serie positiva, sperando che duri più a lungo possibile.
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